Lo
psichiatra tedesco Alois Alzheimer, nel 1901, mostrò ad una sua paziente, la
signora Auguste D., di 51 anni, una serie di oggetti e successivamente le
chiese che cosa le era stato indicato. Lei però non riusciva a ricordare. Inizialmente,
il medico registrò il suo comportamento come "disordine da amnesia di
scrittura", ma la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui venne
diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di
Alzheimer.
La
malattia di Alzheimer è un processo degenerativo che nuoce alle cellule
cerebrali, rendendo lentamente l’individuo che ne è affetto incapace di
condurre una vita normale e provocandone alla fine la morte. Secondo uno studio
condotto dalla Johns Hopkins Bloomberg
School of Public Health di Baltimora, Stati Uniti, nel mondo circa 26,6
milioni di persone soffrono di questa malattia.
Il
fattore più importante correlato alla comparsa di questo morbo è sicuramente
l’età. La sua probabilità di comparsa aumenta con l’avanzare dell’età. Molto rara sotto i 65 anni raggiunge una diffusione
significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.
Per
la maggior parte dei casi non si sa quale sia la causa scatenante di questa
malattia, solo per 1-5% dei casi ci sono delle ipotesi:
- l'ereditarietà genetica della malattia di Alzheimer, sulla base di studi effettuati su gemelli e su familiari, incide con una forbice d’oscillazione comprendente dal 49% al 79% dei casi;
- una diffusa distruzione di neuroni, principalmente attribuita alla beta-amiloide, una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari".
Nell’immagine
osserviamo le differenze tra un cervello di un paziente affetto d’Alzheimer (a
destra) e un cervello normale.
Finora
si è sempre pensato che, con questa malattia, vada persa la capacità di formare
i ricordi ma, secondo uno studio condotto da alcuni ricercatori del MIT di
Boston, ad essere lesionata sarebbe la capacità di recuperare i ricordi, che
continuerebbero a formarsi normalmente. Se così fosse, si potrebbe pensare alla
stimolazione mirata di alcune aree del cervello come sistema per ritrovare la
memoria perduta.
Il
gruppo di ricercatori guidati da Susumu Tonegawa ha sperimentato su dei topi
questo sistema, che consiste nell’optogenetica, una rivoluzionaria tecnica di
controllo dell'attività cerebrale che consente di usare un fascio di luce per
accendere e spegnere a comando specifici neuroni manipolati geneticamente per
essere sensibili alla luce.
Il
recupero dei ricordi nel cervello è azionato da bottoncini (le cosiddette
'spine dendritiche') che connettono fra loro i neuroni e che si attivano ogni
volta che uno stimolo esterno fa rivivere un'esperienza ridando vita ad un
ricordo. Nei malati di Alzheimer queste spine dendritiche tendono a diminuire
nel tempo, rendendo il ricordo sempre più difficile da recuperare.
L'esperimento condotto sui topi, però, ha dimostrato che queste possono essere
nuovamente stimolate a crescere.
Nonostante
il cammino da fare sia ancora lungo, siamo sulla buona strada per trovare una
cura per questa terribile malattia.
- Iole Clarizia
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